CALUGA ANNI '50-60
Caluga è sempre stata quasi una contrada a parte rispetto al paese di Valrovina, non so se per la sua posizione che già guarda la Valbrenta o per il carattere dei suoi abitanti...”quei che gà copà el Beato Lorensin” sussurravano alcuni. Da altri detta anche “piccola Russia”, per alcune persone di idee diverse dal comune pensare di allora, contrapposta al “Vaticano”, cioè Colle Basso.
I miei ricordi della Caluga degli anni '50-60 non possono essere disgiunti da quelli della bottega (allora non si diceva generi alimentari) di mamma e papà, Antonietta e Toni Basisca.
Il paese era uscito povero dalla guerra, ma pian piano l'economia riprendeva, molti trovavano lavoro nelle fabbriche di Bassano o come muratori nell'edilizia, i campi li coltivavano nei momenti liberi. Anche le ragazze di Caluga iniziarono a lavorare, alcune nella fabbrica di spalline Manfrè a Sarson e scendevano e salivano a piedi lungo il sentiero di Vallison. Si iniziava ad avere una certa disponibilità economica, così i miei decisero di metter su bottega.
C'era già in piazza quella della Padovana, allora gestita da Olga e Toni “Brontoeon” e quella della Giovannina “Bijoti”, ma erano scomode per Caluga.
Era il 1955 e la bottega sopravvisse fino al 1985, quando l'avvento dei supermercati e la possibilità per tutti di spostarsi facilmente a Bassano ne decretarono la fine e i miei andarono in pensione.
La bottega rimase pressochè uguale negli anni (pensate che non abbiamo una foto...che sbaglio!): il banco di legno realizzato da nonno Costante che si dilettava da “marangon”, come pure i ripiani a cassetti per pasta, riso, zucchero, tutto venduto sfuso, le prime banane, mai viste prima di allora.
I baccalà che pendevano dal soffitto, allora cibo economico, la basculla (in dialetto bassacuna”) con vicino i sacchi di semola, tritello, “granolo” per i molti animali da cortile allevati nelle famiglie, i due cassoni per il pane, comune e condito, le uniche tipologie di quell'epoca.
Il pane papà lo andava a prendere in piazza da Jijio fornaro e Bortolina, con un'Ape che aveva comprato per i rifornimenti al negozio, primo mezzo motorizzato a Caluga.
Quando il pane era finito, mamma metteva alla “Voltara” uno straccio bianco (non c'erano telefoni): era il segnale e arrivava Jijo fornaro con la moto e un nuovo sacco pieno.
Per la bottega passava l'intera umanità di Caluga e non solo.
Salivano da Vallison, allora contrada molto popolata, i Menegon, i Marinea, i Marcati e Gaetano che, se aveva bevuto qualche bicchiere in più, non era raro trovarlo poi giù per le Buse, dentro un “sieson” a imprecare: - Italia spinosa! -
Sante ricorda che da Sarson spesso saliva anche Aristide in sella al suo cavallo bianco, tra la meraviglia dei bambini.
Saltuariamente salivano per la spesa anche da Privà: Giovanin Britoea, i Campagnoi, Manacia, Piero Bisata, noto per suonare da autodidatta la fisarmonica alle feste, anche se, a detta detta di qualcuno ne suonava “do de precise e una de compagna”, i Ramonda. Antonia Ramonda e Gina Bittante ricordano che venivano a Caluga a comprare il petrolio per il canfin, Privà fu l'ultima contrada ad avere la corrente elettrica.
A volte si fermavano per acquisti anche gli Alberti “Tedeschi” dei Casoni tra Valrovina e Rubbio e “i Stagnini”, tornando da Bassano su per la Val dei Ochi o per i Roccoli.
Ogni tanto Bruno Berna, che d'estate risiedeva ai Merli con le mucche, arrivava con il suo mulo, che legava fuori dalla bottega e caricava di viveri , sacchi di cibo per animali e petrolio. Quest'uomo possente e il suo mulo erano un'attrativa per noi bambini. Anche Fiori Baiei scendeva con il musso.
Alcuni ragazzi dei Baiei frequentavano le elementari a Valrovina, scendendo per Caluga e salendo ogni giorno l'antica mulattiera del Sejo.
A papà era chiesto anche di fare dei noli, dato che non c'erano altri mezzi a Caluga. Così il cassone dell'Ape vide alternarsi, o anche in contemporanea, merci, mobili, persone, donne incinte che andavano a partorire e...”presto, presto Toni che te o fasso qua” e, in tempi più recenti, anche le capre dei vecioti del Coeseo portate “al beco” all'Erta, sopra Crosara.
In seguito papà comprò una Giardinetta più comoda per le persone, ma tenne sempre l'Ape per le merci.
Non c'erano orari che regolamentassero l'apertura della bottega, né feste comandate. Mamma era sempre a disposizione e, anche se raccoglieva racconti e confidenze, gioie e dolori di tutta quell'umanità di passaggio lì, dalla sua proverbiale discrezione nulla trapelava.
Una mattina, una gragnuola di sassi picchiò i balconi della bottega. Era Maria de Tita, detta Picciarea per la sua bassa statura, donna minuta ma energica che doveva andare a Bassano a piedi e aveva bisogno di comprare qualcosa e...”ndemo Toni, cossa fasiu ncora in leto a 'ste ore?...” erano le cinque e mezzo! In seguito Maria si spostò nella casa dei Sartore, la più alta di Caluga, sopra gli Andreoni e vendette la bella casa con l'entrata ad arco a Gigetto e Olga con i loro numerosi figli.
In quel periodo a Caluga ritornò anche qualche famiglia di emigranti: Vincenzo Coccio e Olga Andreoni dalle miniere del Belgio, Cisio e Lucia Batistone dal Piemonte e i loro figli, così avevamo nuovi compagni di giochi.
Per alcuni tornati, molti erano partiti in quegli anni: ragazzi e ragazze dei Menin, dei Marcati, dei Titani, dei Pasquai, la meglio gioventù di Caluga, diretti verso le fabbriche di orologi o di pizzo San Gallo in Svizzera. Una partì per l'Australia, nel 1952: Germana chiamata Zermen, di Ines e Marco Menegon. Anche loro erano stati emigranti in Francia, dove Marco lavorava alla linea Maginot e Germana e Liliana erano nate lì. Germana tornò a Caluga dall'Australia dopo 18 anni in visita ai genitori e la mamma negli anni '70 ricambiò la visita. Ricordo che quando zia Ines sentiva alla radio la canzone allora in voga “Terra straniera” scappava piangendo al ricordo della figlia lontana.
Gli spazi per i nostri giochi erano molti. All'Era, piazzetta piana davanti alla casa di Pierone e della Nina si giocava a campanon, bandiera, sassetti o al giro d'Italia con i tappi. Dai Soldoni arrivava Girolamo con il sercio tintinnante sui sassi della strada. A nascondino ci si intrufolava tra i meandri della “caredà”, sbirciando lo stanzone buio dove il Moro Guardia faceva il formaggio in un'enorme caliera. Il fratello Piero, invece, si dedicava alla casa e alla cucina e ostentava una certa importanza, avendo lavorato come cuoco e maggiordomo presso i conti di Campodarsego.
Si saliva al “Scirocolo”, alla casa di Ubaldino e Gigetta, esposta al vento di scirocco, da cui il nome del posto, mentre “al furlan” erano le case che guardavano verso Pove e il Grappa. Nell'irruenza della corsa si scendeva dall'altra parte del piccolo colle, seguiti dai rimproveri di Andoeto che disturbavamo.
Maria Antonia ricorda che noi bambine prima di uscire a giocare, dovevamo infilare venti corone al dì, che poi le mamme avrebbero confezionato.
Ma il teatro preferito delle nostre scorribande era la Costa e allora i giochi potevano diventare pericolosi. Entravamo nelle gallerie della prima guerra mondiale, salivamo sui tralicci dell'alta tensione, ma solo fino al cartello”Pericolo di morte”. Sante ricorda che con i ragazzi più grandi sbullonava le barre del traliccio, una sì e una no... una sì e una no per vendere il ferro al “strassaro”.
Si sparava col carburo in cima alla Costa. Silvana Marcati, che giocava sempre con i maschi, una volta si prese il barattolo in faccia, tra il fuggi-fuggi generale.
Al vecchio pozzo, dove si andava a prendere l'acqua, con “seci e bigoeo” (l'acquedotto a Caluga arrivò nel 1968), il divertimento era camminare sul bordo della vera, aggrappati alla carrucola...e mai nessuno si fece male davvero! Ma ginocchia e gomiti sbucciati non si contavano e nemmeno le sassate per le liti furiose che scoppiavano quando, all'uscita da scuola, salivamo in gruppo su per il Castegnie. Lina e Giuseppe erano quelli che abitavano più lontani, dagli Andreoni, oltre ai ragazzi dei Baiei, che potevano uscire da scuola mezz'ora prima, data la lontananza, ma ci aspettavano nascosti.
Il tardo pomeriggio ci si trovava all'osteria della Maria Gegia a guardare, nell'unico apparecchio di Caluga, la TV dei ragazzi. Dovevamo portare 10 lire per un bicchiere di spuma, pena l'esclusione.
Tonina Zane, che portava a pascolare la capra in Campesana, vicino al capitello del Beato Lorenzino, a volte chiamava noi bambine, Maria, Santina, Mariantonia, Paola ed io, e lì in un pentolino cucinava piccole patate che mangiavamo assieme.
Al capitello andava ogni giorno la Nina Rossa (per il bel colore dei capelli), a pregare per il figlio lontano e in pericolo, che tornò sano e salvo
Per non essere da meno di quelli della piazza, un inverno anche a Caluga si fece la pista di ghiaccio, da Chichi Zane fino alla Voltara e c'era che faceva anche il salto, non c'era il muretto allora.
Con bero e scaruja si andava invece giù per le Buse o sulla Costa.
La Voltara, nella bella stagione, era il ritrovo dei ragazzi da fuori che, con le prime Vespa venivano a trovare le ragazze di Caluga. Il giorno dopo noi bambini trovavamo sempre per terra qualche soldino perso dai morosi nelle loro effusioni innocenti.
Dalla Voltara, nelle sere d'estate, si intonavano canti, sulla scia dei primi Sanremo e i “Vola colomba bianca vola...” si spandevano per tutta la vallata.
A Caluga c'era n momento in cui la contrada si ritrovava unita: ogni cinque anni per la festa del Beato Lorenzino, terza domenica dopo Pasqua.
Allora gli uomini costruivano archi con le “daze de pesso”, abbelliti da palloni, fiori di carta e bandierine colorate che le donne preparavano insieme di sera. Era una gara a chi faceva l'arco più bello, per accogliere la processione che partiva dalla chiesa e arrivava fino al capitello nel bosco.
Era una tradizione antica, la festa si fece fino al 1985 e poi una revisione storica mal digerita da alcuni, costrinse ad interromperla.
Proprio in quell'anno anche la bottega chiuse i battenti. I tempi erano cambiati e bisognava adeguarsi. Anche le abitudini della gente di Caluga erano cambiate, non si vedevano più le donne sedute fuori di casa a far corone e uomini la sera a gruppetti a raccontarsela in strada, cosa che aveva sorpreso Giuseppina, allora giovane sposa di Sante, quando venne ad abitare a Caluga, tanto da esclamare: - ma qui è come nei paesi del Sud! -
E dallo stupore traspariva apprezzamento per un modo di vivere più umano.
Caterina Tosin